Card. Robert Sarah
I Santi, spesso, restano nascosti agli occhi dei loro contemporanei. Chiusi nei monasteri, il mondo come potrà conoscerli? Mi rammarico del fatto che molti vescovi e molti sacerdoti trascurino la loro missione essenziale, che consiste nella propria santificazione e nell’annuncio del Vangelo di Gesù, per impegnarsi invece in questioni sociopolitiche come l’ambiente, le migrazioni o i senzatetto.
È un impegno lodevole occuparsi di questi temi. Ma se trascurano l’evangelizzazione e la propria santificazione si agitano invano. La Chiesa non è una democrazia nella quale alla fine è la maggioranza a prendere le decisioni. La Chiesa è il popolo dei Santi. Nell’Antico Testamento, un piccolo popolo sempre vittima di persecuzioni rinnova continuamente la Santa Alleanza con la santità della propria esistenza quotidiana.
Nella Chiesa primitiva i cristiani si chiamavano «santi», perché tutta la loro vita era ricolma della presenza di Cristo e della luce del Suo Vangelo. Erano una minoranza, ma hanno trasformato il mondo. Cristo non ha mai promesso ai Suoi fedeli che sarebbero diventati una maggioranza. Nonostante i più grandi sforzi missionari, la Chiesa non ha mai dominato il mondo. La missione della Chiesa, infatti, è una missione d’amore, e l’amore non domina. L’amore c’è per servire e per morire, perché gli uomini abbiano la vita, e la vita piena. San Giovanni Paolo II affermava con ragione che l’evangelizzazione è solo agli inizi.
La forza di un cristiano nasce dal suo rapporto con Dio. Deve incarnare la santità di Dio in lui e indossare «le armi della luce» (Rm 13,12), «cinti i fianchi la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace [tenendo] sempre in mano lo scudo della fede» (Ef 6,14-16). Questa armatura costituisce il nostro potente equipaggiamento per il grande combattimento dei Santi, quello della preghiera.
È una lotta: «Vi esorto perciò, fratelli – scrive San Paolo ai Romani -, per il Signore nostro Gesù Cristo e l’amore dello Spirito, a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio» (Rm 15,30). «Vi saluta Èpafra, servo di Cristo Gesù, che è dei vostri, il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio» (Col 4,12).
Il libro della Genesi racconta una scena misteriosa: il combattimento fisico tra Giacobbe e Dio. Siamo impressionati da Giacobbe che osa azzuffarsi con Dio. Il combattimento durò tutta la notte. Sulle prime Giacobbe sembrava avere la meglio, ma poi il suo misterioso avversario lo colpisce all’articolazione del femore che si sloga mentre continuava a lottare con lui. Giacobbe porterà per sempre il segno di questa lotta notturna e da quel momento diventerà l’eponimo del popolo di Dio: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!» (Gen 32,29). Senza rivelare il Proprio Nome, Dio benedice Giacobbe e gli dona un nome nuovo. Questa scena è diventata l’immagine del combattimento spirituale e dell’efficacia della preghiera. Di notte, nel silenzio e nella solitudine, lottiamo con Dio nella preghiera.