Si fa sera e il giorno ormai volge al declino

Card. Robert Sarah

Come possiamo restare davanti alla santità di Dio se ci aggrappiamo al nostro peccato? L’adorazione è il segno più evidente della nobiltà dell’uomo. È un riconoscimento della misericordiosa prossimità di Dio e l’espressione umana della straordinaria intimità dell’uomo con Lui. L’uomo è prostrato, letteralmente investito dall’immenso amore che Dio riversa su di lui. Adorare significa lasciarsi bruciare dall’amore divino. Di fronte all’amore si sta sempre in ginocchio. Solo il Padre può indicarci come adorare e come stare davanti all’amore. Si deve comprendere, dunque, che la liturgia è un atto umano ispirato da Dio, mediante il quale rispondiamo a Dio Che ci ama e ci viene incontro con tanta misericordia.

 

Ci sono però pochi adoratori. Perché il popolo di Dio si metta ad adorare, occorre che i sacerdoti e i vescovi siano i primi. Essi sono chiamati a rimanere costantemente davanti a Dio. La loro esistenza è destinata a diventare una preghiera incessante e perseverante, una perenne liturgia. Sono i primi di cordata. L’adorazione è un atto personale, una chiacchierata a cuore aperto con Dio, che noi abbiamo bisogno di imparare.

 

Pensiamo a Mosè, che ha insegnato al popolo ebraico a diventare un popolo di adoratori, a stare davanti a Dio da figli. Dio Stesso istituisce Aronne come sacerdote. Questi eserciterà con i propri figli il sacerdozio di Dio. Gli Ebrei sanno che devono tenere desta la memoria dell’uscita dall’Egitto attraverso la celebrazione pasquale, il grande atto d’amore di Dio verso il Suo popolo, Israele.

 

Centrati su sé stessi e le proprie attività, preoccupati dei risultati umani del proprio ministero, non è raro che vescovi e sacerdoti trascurino l’adorazione. Non trovano il tempo per Dio perché hanno perso il senso di Dio. Dio non ha più molto spazio nella loro vita. Eppure, il primato di Dio dovrebbe significare la centralità di Dio nelle nostre vite, nelle nostre azioni e nei nostri pensieri. Se l’uomo dimentica Dio finisce per celebrare sé stesso. Egli diventa il proprio dio e si pone in aperto contrasto con Dio. Agisce come se il mondo fosse il suo regno, riservato a lui solo. Dio non ha più niente a che fare con la creazione, diventata proprietà umana da cui bisogna trarre profitto.

 

Con il pretesto di «conservare puro» il soprannaturale, impediamo a Dio di entrare nelle nostre vite; rifiutiamo l’incarnazione. Rifiutiamo che Dio Si comunichi attraverso la Scrittura, vogliamo purificarla di tutti i miti che essa conterrebbe. Neghiamo la possibilità di dire Dio con la teologia, con la scusa di conservarNe la trascendenza. Rifiutiamo la pietà, la religiosità, il sacro, con il pretesto di non voler introdurre elementi umani nel nostro rapporto con Dio.

 

Scriveva il cardinale Ratzinger nell’Introduzione allo spirito della liturgia: «la nostra forma contemporanea di sensibilità, che non riesce più a cogliere la trasparenza dello Spirito nei sensi, porta quasi necessariamente alla fuga nella teologia puramente “negativa” (apofatica): Dio è al di là di ogni pensiero, e per questo tutto ciò che possiamo dire di Lui e tutte le forme delle immagini di Dio sono allo stesso tempo valide e indifferenti. Questa umiltà apparentemente profondissima di fronte a Dio diventa, già di per sé stessa, superbia che non lascia più la parola a Dio e che non Gli concede di poterSi fare realmente presenza nella storia».