Card. Robert Sarah
Esiste in germe da molto più tempo, ma è innegabile che al Concilio vaticano II sia seguita una profonda e universale crisi della Chiesa. Il post-Concilio non si rivelò l’ideale sperato. Ne Il contadino della Garonna, Jacques Maritain evoca «la febbre neo-modernista, molto contagiosa almeno nei circoli detti “intellettuali”, tale che il modernismo dei tempi di Pio X non appare al confronto che un modesto raffreddore da fieno, e che trova espressione soprattutto presso i pensatori più spinti tra i nostri fratelli protestanti, ma è attiva anche presso i pensatori cattolici ugualmente d’avanguardia, questa seconda descrizione ci offre il quadro di una specie di apostasia “immanente” (intendo decisa a restare cristiana a tutti i costi) che si stava preparando da molti anni e di cui certe speranze oscure latenti nelle regioni basse dell’anima e qua e là portate in superficie in occasione del Concilio, hanno accelerato la manifestazione – falsamente imputata talvolta allo “spirito del Concilio”».
In quel periodo, molti cristiani, i chierici in particolare, hanno conosciuto un’adolescenziale crisi di identità. Figli della Chiesa, senza meriti da parte nostra, siamo semplici eredi del tesoro della fede. La verità della fede ci è stata trasmessa perché la conservassimo e perché ne vivessimo. Da questo punto di vista, siamo debitori insolventi nei confronti di tutti i nostri padri. Ricevere il tesoro della tradizione implica uno spirito filiale. In certo modo, siamo come nani sulle spalle di giganti. Ma siamo soprattutto debitori di Dio.
Coscienti della nostra indegnità e della nostra debolezza, con gratitudine Lo contempliamo mentre affida nelle nostre mani il tesoro della vita divina che sono i Sacramenti e il Credo. Quale atteggiamento dobbiamo avere nei confronti di tale generosità di fronte alla nostra miseria? Non ci resta che condividere l’eredità ricevuta e trasmetterla. La coscienza della nostra innata indegnità dovrebbe spingerci ad annunciare al mondo la buona novella, a proclamarla, non come nostra proprietà, ma come un prezioso deposito che ci è stato affidato per grazia. È questo, del resto, l’atteggiamento degli Apostoli dopo la Pentecoste.
Negli anni del post-Concilio, sembra che alcuni abbiano avuto una cattiva coscienza di questo stato di eredi indegni. Come afferma Joseph Ratzinger, si è voluto fare «un grande esame di coscienza» della Chiesa cattolica. Ci si è compiaciuti delle «ammissioni di colpevolezza», di un «appassionato atteggiamento di autoaccusa», di una «concezione di Chiesa peccatrice fin sul piano dei valori comuni e fondamentali». Egli osserva inoltre che si è arrivati persino a «prendere sistematicamente sul serio tutto l’arsenale delle accuse rivolte contro la Chiesa».
Un esame di coscienza avrebbe dovuto portarci a trasmettere la nostra eredità con tanta più gioia e attenzione quanto più ci saremmo resi conto fino a che punto ne siamo indegni. Al contrario, il cardinale Ratzinger osserva che quel periodo «ha provocato un’incertezza spirituale circa la nostra identità, un atteggiamento di rottura nei confronti della nostra storia e l’idea di un’ora zero in cui tutto sarebbe dovuto ricominciare daccapo».