La disubbidienza di Eva e l'ubbidienza di Maria.
17.13 Io ho percorso a ritroso la via dei due peccatori. Ho ubbidito. In tutti i modi ho ubbidito. Dio m’aveva chiesto d’esser vergine. Ho ubbidito. Amata la verginità, che mi faceva pura come la prima delle donne prima di conoscere Satana, Dio mi chiese d’esser sposa. Ho ubbidito, riportando il matrimonio a quel grado di purezza che era nel pensiero di Dio quando aveva creato i due Primi. Convinta d’esser destinata alla solitudine nel matrimonio e allo sprezzo del prossimo per la mia sterilità santa, ora Dio mi chiedeva d’esser Madre. Ho ubbidito. Ho creduto che ciò fosse possibile e che quella parola venisse da Dio, perché la pace si diffondeva in me nell’udirla. Non ho pensato: “Me lo sono meritato”. Non mi son detta: “Ora il mondo mi ammirerà, perché sono simile a Dio creando la carne di Dio”. No. Mi sono annichilita nella umiltà. La gioia m’è sgorgata dal cuore come uno stelo di rosa fiorita. Ma si ornò subito di acute spine e fu stretta nel viluppo del dolore, come quei rami che sono avvolti dai vilucchi dei convolvoli. Il dolore del dolore dello sposo: ecco la strettoia nel mio gioire. Il dolore del dolore del mio Figlio: ecco le spine del mio gioire. Eva volle il godimento, il trionfo, la libertà. Io accettai il dolore, l’annichilimento, la schiavitù. Rinunciai alla mia vita tranquilla, alla stima dello sposo, alla libertà mia propria. Non mi serbai nulla. Divenni l’Ancella di Dio nella carne, nel morale, nello spirito, affidandomi a Lui non solo per il verginale concepimento, ma per la difesa del mio onore, per la consolazione dello sposo, per il mezzo con cui portare egli pure alla sublimazione del coniugio, di modo da fare di noi coloro che rendono all’uomo e alla donna la dignità perduta. (…) Per leggere l'intero capitolo clicca qui: www.valtortamaria.com