Senza titolo

La parabola del grano e del loglio.

Questo nel senso universale. Ma per voi ve ne è un altro ancora, che risponde alle domande che più volte, e specie da ieri sera, vi fate. Voi vi chiedete: “Ma dunque fra la massa dei discepoli possono essere dei traditori?”, e fremete in cuor vostro di orrore e di paura. Ve ne possono essere. Ve ne sono certo.

 

Il seminatore sparge il buon seme. In questo caso, più che spargere, si potrebbe dire: “coglie”. Perché il maestro, sia che sia Io o sia che fosse il Battista, aveva scelto i suoi discepoli. Come allora si sono traviati? No, anzi. Male ho detto dicendo “seme” i discepoli. Voi potreste capire male. Dirò allora “campo”. Tanti discepoli tanti campi, scelti dal maestro per costituire l’area del Regno di Dio, i beni di Dio. Su essi il maestro si affatica per coltivarli, acciò diano il cento per cento. Tutte le cure. Tutte. Con pazienza. Con amore. Con sapienza. Con fatica. Con costanza. Vede anche le loro tendenze malvagie. Le loro aridità e le loro avidità. Vede le loro testardaggini e le loro debolezze. Ma spera, spera sempre e corrobora la sua speranza con la preghiera e la penitenza, perché li vuole portare alla perfezione.

 

Ma i campi sono aperti. Non sono un chiuso giardino cinto da mura di fortezza, di cui sia padrone solo il maestro e in cui solo lui possa penetrare. Sono aperti. Messi al centro del mondo, fra il mondo, tutti li possono avvicinare, tutti vi possono penetrare. Tutti e tutto. Oh! non è il loglio solo il mal seme seminato! Il loglio potrebbe essere simbolo della leggerezza amara dello spirito del mondo. Ma vi nascono, gettati dal Nemico, tutti gli altri semi. Ecco le ortiche. Ecco le gramigne. Ecco le cuscute. Ecco i vilucchi. Ecco infine le cicute e i tossici. Perché? Perché? Che sono?

 

Le ortiche: gli spiriti pungenti, indomabili, che feriscono per sovrabbondanza di veleni e danno tanto disagio. Le gramigne: i parassiti che sfiniscono il maestro senza saper fare altro[32] che strisciare e succhiare, godendo del lavoro di lui e nuocendo ai volonterosi, che veramente trarrebbero maggior frutto se il maestro fosse non turbato e distratto dalle cure che esigono le gramigne. I vilucchi inerti che non si alzano da terra che fruendo degli altri. Le cuscute: tormento sulla via già penosa del maestro e tormento ai discepoli fedeli che lo seguono. Si uncinano, si conficcano, lacerano, graffiano, mettono diffidenza e sofferenza. I tossici: i delinquenti fra i discepoli, coloro che giungono a tradire e a spegnere la vita come le cicute e le altre piante tossiche. Avete mai visto come sono belle coi loro fiorellini che poi divengono palline bianche, rosse, celeste-viola? Chi direbbe che quella corolla stellare, candida o appena rosata, col suo cuoricino d’oro, chi che quei coralli multicolori, tanto simili ad altri frutticini che sono la delizia degli uccelli e dei pargoli, possano, giunti a maturazione, dare morte? Nessuno. E gli innocenti ci cascano. Credono tutti buoni come loro… e ne colgono e muoiono.

 

Credono tutti buoni come loro! Oh! che verità che sublima il maestro e che condanna il suo traditore! Come? La bontà non disarma? Non rende il malvolere innocuo? No. Non lo rende tale, perché l’uomo caduto preda del Nemico è insensibile a tutto ciò che è superiore. E ogni superiore cosa cambia per lui aspetto. La bontà diviene debolezza che è lecito calpestare e acuisce il suo malvolere come acuisce la voglia di sgozzare, in una fiera, il sentire l’odore del sangue. Anche il maestro è sempre un innocente… e lascia che il suo traditore lo avveleni, perché non vuole e non può lasciar pensare agli altri[33] che un uomo giunga ad essere micidiale a chi è innocente.

 

181.6 Nei discepoli, i campi del maestro, vengono i nemici. Sono tanti. Il primo è Satana. Gli altri i suoi servi, ossia gli uomini, le passioni, il mondo e la carne. Ecco, ecco il discepolo più facile ad essere percosso da essi perché non sta tutto presso al maestro, ma sta a cavaliere fra il maestro e il mondo. Non sa, non vuole separarsi tutto da ciò che è mondo, carne, passioni e demonio, per essere tutto di chi lo porta a Dio. Su questo spargono i loro semi e mondo e carne, e passioni e demonio. L’oro, il potere, la donna, l’orgoglio, la paura di un mal giudizio del mondo e lo spirito di utilitarismo. “I grandi sono i più forti. Ecco che io li servo per averli amici”. E si diventa delinquenti e dannati per queste misere cose!… Perché il maestro, che vede l’imperfezione del discepolo, anche se non vuole arrendersi al pensiero: “Costui sarà il mio uccisore”, non lo estirpa subito dalle sue file? Questo voi vi chiedete.

 

Perché è inutile farlo. Se lo facesse non impedirebbe di averlo nemico, doppiamente e più sveltamente nemico per la rabbia o il dolore di essere scoperto o di essere cacciato. Dolore. Sì. Perché delle volte il cattivo discepolo non si avvede di essere tale. È tanto sottile l’opera demoniaca che egli non l’avverte. Si indemonia senza sospettare di essere soggetto a questa operazione. Rabbia. Sì. Rabbia per essere conosciuto per quello che è, quando egli non è incosciente del lavoro di Satana e dei suoi adepti: gli uomini che tentano il debole nelle sue debolezze per levare dal mondo il santo che li offende, nelle loro malvagità, con il paragone della sua bontà.

 

 

E allora il santo prega e si abbandona a Dio. “Ciò che Tu permetti si faccia, sia fatto”, dice. Solo aggiunge questa clausola: “purché serva al tuo fine”. Il santo sa che verrà l’ora in cui verranno espulsi dalle sue messi i logli malvagi. Da chi? Da Dio stesso, che non permette oltre di quanto è utile al trionfo della sua volontà d’amore».