La recente esperienza, improvvisa e drammatica, del virus (covid 19) ha coinvolto in modo planetario anche la vita della Chiesa Cattolica con effetti deleteri e capillari all’interno del suo più intimo sacrario, la liturgia e soprattutto la SS. Eucaristia.
Se da un lato in questa grande prova si sono viste testimonianze autentiche e coraggiose di sacerdoti fedeli alla dottrina e radicati nell’adesione al dogma eucaristico, dall’altro una gran parte del clero sembra aver manifestato in modo inequivocabile quella impreparazione teologica, liturgica e spirituale, che imperversa nel tessuto ecclesiale in modo crescente nei decenni successivi al Concilio Vaticano II. La pandemia ha impietosamente messo in luce con evidenza i deficit teologici che da tempo covavano indisturbati nella vita della Chiesa.
Mi limito ad osservare il settore dell’Eucaristia, che in realtà é il cuore stesso della vita liturgica e perciò dell’intera vita della Chiesa. Se si viene meno su questa questione centrale si compromette alla radice l’essere stesso della Chiesa, che dall’Eucaristia attinge ogni energia soprannaturale di grazia.
Nell’arco dello sviluppo pandemico possiamo osservare un notevole collasso su tutti gli aspetti portanti del dogma eucaristico, che qui vengo a dimostrare.
Con l’interdizione del popolo dalla celebrazione pubblica della Messa e la chiusura delle chiese, si sono verificati comportamenti espliciti di sacerdoti che hanno deciso di non celebrare l’Eucaristia in quanto ritenuta priva di valore senza l’assemblea dei fedeli.
Si sono palesate motivazioni varie, ma del tutto fragili e senza alcuna base teologica, come l’utilità di una prolungata esperienza di digiuno eucaristico, l’astensione dalla Messa come atto di solidarietà col popolo impossibilitato di partecipare, ecc. ma ciò che é grave é il fatto che l’assemblea dei fedeli venga considerata elemento ontologico ed essenziale all’identità della Messa e quindi una Messa senza fedeli sarebbe del tutto priva della sua finalità specifica. Si é quindi dimenticato che la Messa é tutta nel solo sacerdote, come il Sacrificio della croce é tutto e pienamente nel Sommo nostro Sacerdote, il Signore Gesù Cristo. Quindi quando il sacerdote, anche da solo, celebra il divin Sacrificio é Cristo stesso che, mediante il sacerdote agente in persona Christi, attualizza il suo Sacrificio in modo incruento sub specie sacramenti.
Si é inoltre oscurata la finalità primaria dell’offerta del Sacrificio dell’altare come glorificazione infinita offerta alla SS. Trinità e sommo atto latreutico verso la divina Maestà. Tale glorificazione é compiuta in modo pieno ed insuperabile dall’unico e perfetto Sacrificio di Cristo, che consegnato alla Chiesa, sua sposa, viene continuamente offerto dal solo sacerdote, al quale si unisce il popolo santo e in esso i singoli fedeli come soggetti secondari e non necessari al compimento integro del supremo atto sacramentale.
Certo che la reiterazione della Messa nel tempo e in ogni luogo é comandata dal Signore per unire al suo atto redentore ogni membro del suo corpo mistico vivente in ogni epoca e latitudine, tuttavia l’apporto del popolo di Dio e in esso il culto di ogni fedele non aggiungono alcunché di essenziale al Sacrificio del Signore, già pieno e sovrabbondane per la salvezza del mondo intero: cuius una stilla salvum facere (cfr. Adoro te devote).
Infine la presenza della Chiesa non é da intendere in modo sociologico, quasi che si riducesse alla sola Chiesa visibile e militante in terra, ma nella sua vera dimensione soprannaturale, la Chiesa nella pienezza del suo mistero che si estende nelle Anime del purgatorio e nei Beati del paradiso. Ciò attesta una presenza misteriosa, percepita solo dalla fede, che configura ogni Messa (anche senza il popolo visibile) come un atto pubblico e ufficiale dell’immensa assemblea degli Eletti che glorificano l’eterno Padre nel consorzio degli Angeli e dei Santi.
Durante i giorni di maggior chiusura della pandemia, alcuni fedeli chiedevano pur con i dovuti riguardi, almeno la santa Comunione extra Missam, che ‘per motivi sanitari’ spesso veniva negata senza un ragionevole motivo.
Questa deficienza di zelo pastorale si complica tuttavia quando si motiva tale diniego sul piano teologico, ritenendo senza significato la Comunione extra Missam, secondo un principio che da decenni insidia una certa parte della teologia di chiara matrice protestante. Il disagio ad impartire la Comunione extra Missam in orari determinati e su richiesta dei fedeli impossibiliti ad intervenire alla Messa, trovò un’opportunità inedita proprio nel tempo della pandemia, quando invece era maggiore il bisogno spirituale dei fedeli in questo momento di grande sofferenza.
Nonostante vi sia un Rituale apposito: «Rito della comunione fuori della Messa e culto eucaristico» (CEI, 1979), una mentalità già alquanto diffusa di una parte del clero porta a minimizzare tale possibilità in nome di una rigorosa prassi della Comunione sempre e solo durante la Messa.
Quando le leggi a poco a poco allentarono il loro rigore e si giunse a permettere la Messa col popolo con tali restrizioni da creare un notevole disagio, soprattutto riguardo all’amministrazione della santa Comunione, l’ipotesi di riprendere gradualmente la Messa senza procedere immediatamente e necessariamente ad amministrare la santa Comunione a causa di modalità del tutto sconvenienti, veniva rimossa perché, si diceva, la Messa senza Comunione sacramentale al popolo non aveva alcun senso.
In realtà il popolo andava gradualmente preparato alla Comunione, dopo tre mesi di assenza dei fedeli anche dal sacramento della Penitenza e ciò in concomitanza con solennità di altissimo rango come la Pasqua e la Pentecoste. Non si é sentita molto la preoccupazione di dire ai fedeli che avrebbero dovuto accostarsi alla Penitenza prima di ricevere la Comunione, né sembra vi sia stato un sufficiente zelo per predisporre le Confessioni previe alla ripresa della Messa col popolo. Ciò fa riflettere.
Infatti in queste scelte superficiali si sono rivelati dei gravi deficit teologici: il valore della Messa anche senza la partecipazione dei singoli fedeli alla Comunione sacramentale; la necessità dello stato di grazia prima di accedere al Sacramento. Non si deve dimenticare che il precetto festivo impone la partecipazione fisica al divin Sacrificio, ma non necessariamente la recezione della Comunione sacramentale, per la quale vi é uno specifico precetto, il precetto pasquale.
Dimenticando questa distinzione non si poté capire che una saggia ripresa delle Messe senza la Comunione ai fedeli poteva essere opportuna, sia per la dignità dell’amministrazione del Sacramento, sia per la dignità morale e la fruttuosità spirituale di coloro che intendevano riceverlo. Si creò un cortocircuito: si riprese la Messa con la Comunione al popolo senza cura per la dignità del Sacramento e per l’adeguata dignità morale dei comunicandi.
Il fatto più eclatante, che portò una grande sofferenza tra i fedeli più pii e dottrinalmente preparati, fu la modalità impropria ed imposta di ricevere la santa Comunione.
Da un lato fu comandata la Comunione in mano, dall’altro fu distribuita col guanto. Ne é venuta una diatriba estesa e capillare tra il clero e soprattutto tra i fedeli, che ha portato a divisioni ed attriti proprio lì dove si celebra il Sacramento della carità e dell’unità. La divisione delle due parti contendenti ha in realtà manifestato la fedeltà o la negazione del dogma eucaristico della transustanziazione. Qui si sono rivelati i veri cattolici rispetto agli altri che de facto hanno almeno oscurato lo splendore e forse perduto l’identità del dogma della fede.
Il dogma cattolico riconosce nel Sacramento la presenza ontologica «vera, reale e sostanziale» del Verbo incarnato, immolato e glorioso; l’eresia vede nelle oblate la presenza simbolica del Signore che si offre in cibo spirituale. La fede adora con culto di latria il SS. Sacramento e ne conserva con rigore ogni frammento; l’eresia venera nel simbolo del pane e del vino la presenza spirituale del Signore che tocca i cuori solo nell’atto del comunicare per poi lasciare le oblate nella loro realtà materiale di umili strumenti di un tocco soprannaturale che non le ha mutate nella loro identità creaturale.
Il dogma cattolico esige un’adorazione permanente del Corpo e del Sangue di Cristo conservato nel prezioso tabernacolo fino alla sua totale consumazione; l’eresia ricicla nell’uso ordinario ciò che fu usato per simboleggiare il dono conviviale del Signore. La liturgia cattolica perciò impone una purificazione accurata del calice, della patena e delle dita del sacerdote in modo che ogni frammento sia evitato.
Il cattolico autentico ha quindi percepito immediatamente il disagio verso un trattamento eucaristico del tutto superficiale quando non anche sacrilego. Ciò che desta preoccupazione é invece l’adeguamento acritico e facilone di molti sacerdoti e fedeli che non hanno espresso alcuna difficoltà a trattare il sacramento nel modo in cui veniva comandato, preoccupati di assecondare un valore ‘sommo ed indiscutibile’: la salute corporea e la presunta difesa dall’imperversare del virus.
Il cattolico vero sa bene che non é mai lecito ricevere il corpo di Cristo senza prima averlo adorato, né trattarlo in modo che si disperdano i frammenti, quasi fossero insignificanti. Ecco perché l’uso del guanto e l’imposizione della recezione nelle mani sono diventati il discrimine per rivelare i pensieri di molti cuori. Dalle scelte fatte in tale circostanza si mostra l’adesione alla vera fede, oppure il triste abbandono del dogma cattolico.
Tra le strane disposizioni ‘liturgiche’ per contrastare la diffusione della pandemia si deve registrare anche quella di comunicare i concelebranti con la sola specie del pane senza l’assunzione anche della specie del vino: ricevuto il Corpo di Cristo i concelebranti siedono, mentre il Sangue del Signore é totalmente assunto dal sacerdote principale o dai concelebranti a lui più prossimi.
Ciò già avveniva per praticità sia in comunità religiose, sia in case di riposo per sacerdoti anziani e ammalati. Si comprende che in questo caso l’abitudine alla concelebrazione quotidiana ha fatto dimenticare la distinzione essenziale tra il sacerdote concelebrante e il sacerdote assistente, figura ormai quasi scomparsa dalla normale prassi liturgica.
Ora, mentre il sacerdote assistente può astenersi del tutto dalla Comunione sacramentale, oppure la può ricevere come tutti i fedeli sotto una sola specie, il sacerdote concelebrante non se ne può mai astenere e deve assolutamente comunicare sotto le due specie per l’integrità stessa del Sacrificio che concelebra agendo in persona Christi nello stesso modo che agisce il sacerdote celebrante, che presiede la concelebrazione.
Occorre distinguere tra essenza del Sacrificio sacramentale e integrità del medesimo: l’essenza ontologica del Sacrificio incruento é realizzata e contenuta interamente nella Consacrazione, mentre la Comunione sacramentale é necessaria, non per realizzare l’essenza del Sacrificio, ma per l’integrità del medesimo Sacrificio, in quanto l’unione inscindibile della Consacrazione con la Comunione sotto le due specie é stabilita dal Signore fin dalla istituzione dell’Eucaristia. Tale legame imprescindibile, tuttavia, é richiesto al solo sacerdote (celebrante e concelebrante), ma non é strettamente richiesto, né agli altri sacerdoti assistenti, né ai singoli fedeli presenti, i quali possono o non comunicare o comunicare sotto una sola specie o ambedue le specie.
Comunicare ad una sola specie, da parte di ciascun singolo concelebrante, é quindi un atto gravemente illecito che offende la volontà istitutiva del Signore. Vale anche in questo caso la parola di Cristo: «Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Mt 19, 6).
Nella trasmissione telematica della Messa in tempo di pandemia si verificò uno strano modo di concelebrare via streaming: alcuni sacerdoti esibiscono una loro concelebrazione in unione telematica con la Messa del vescovo, che presiederebbe a distanza la ‘concelebrazione’ stessa e tale modalità viene presentata ai fedeli come un servizio liturgico quanto mai opportuno e foriero di prospettive future in vista della rarefazione del clero e delle Messe in loco.
Una tale ‘concelebrazione’ in realtà non si realizza affatto, riducendosi semplicemente a due Messe contemporanee, quella in cattedrale presieduta dal vescovo e quella esibita dal clero locale. In realtà in questo caso viene a mancare il «principio di prossimità fisica» che é strettamente necessario per realizzare validamente sia il Sacrificio sia i Sacramenti.
Ora, con questo tipo di presunta ‘concelebrazione’ parti importanti ed essenziali della Messa sono svolte da un presidente virtuale e localmente lontano, mentre i ‘concelebranti’ in loco intervengono unicamente in riti marginali e supplementari. Certo, qualora i concelebranti locali pronunziano le parole consacratorie sulle oblate reali predisposte sull’altare in loco, consacrano validamente, ma tale atto non costituisce una concelebrazione vera e propria, ma soltanto un’altra Messa detta, qui ed ora, in sincronia temporale con quella, ad esempio, del Vescovo che celebra altrove.
La concelebrazione autentica, invece, richiede la presenza fisica di tutti i sacerdoti concelebranti, che pongono tutti gli atti richiesti dal Sacrificio nel medesimo luogo e nel medesimo tempo. Si richiede insomma la «prossimità fisica» con l’unico altare, l’unico atto sacrificale, l’unico sacerdote presidente e in assenza di tale prossimità si realizzano inevitabilmente due Messe distinte in luoghi diversi anche se in tempi coincidenti.
Per di più ci si esporrebbe all’abuso di celebrare in loco solo alcune parti essenziali della Messa (pronunziando le parole consacratorie e assumendo la santa Comunione), ma delegando le altre parti importanti del Canone, dell’eucologia e la stessa proclamazione della parola di Dio a ministri virtuali che operano fuori da quel «principio di prossimità» che é insito e connaturale con la liturgia in genere e i Sacramenti in specie, che sono il riflesso e l’attuazione qui ed ora del mistero dell’Incarnazione, di Cristo che salva mediante la sua carne glorificata.
La soluzione apparentemente facile della Messa virtuale, sperimentata con frutto in tempo di pandemia, deve essere intesa nel suo giusto valore per non illudersi di poter intraprendere un itinerario virtuale in grado quasi di sostituire in situazioni di normalità la Messa reale.
Occorre subito affermare che non si potrà mai assolvere il precetto festivo in modo virtuale, ma solamente con un intervento fisico nell’azione liturgica della Chiesa. E’ a tal proposito che il «principio di prossimità fisica» va ribadito con forza per porre una celebrazione del Sacrificio e dei Sacramenti non solo in modo lecito, ma anche valido.
Infatti il Signore con la sua Incarnazione ha voluto comunicare con gli uomini mediante la sua corporeità fisica e ora nella gloria infonde sulla Chiesa il dono dello Spirito Santo e gli effetti della grazia sempre mediante quella carne glorificata, che assunse dalla Vergine, che espose alla morte e con la quale ora in eterno regna alla destra del Padre. Per questo i Padri usano il noto assioma: Caro cardo salutis (cfr. Tertulliano, De resurrectione mortuorum VIII, 6-7).
Anche i Santi e i mistici furono sempre istruiti dal Signore stesso affinché passassero attraverso la sua santa Umanità per poter aver accesso ai misteri della gloria e della salvezza. L’Incarnazione quindi sta alla base del «principio di fisicità», che nella liturgia della Chiesa assicura la rilevanza imprescindibile del Verbo incarnato, che agisce nei credenti con l’ausilio visibile e tattile della materia dei Sacramenti, con i suoni della parola, con i simboli e i lemmi del linguaggio degli uomini.
Indubbiamente i mezzi di comunicazione sociale, in tutte le loro modalità, possono contribuire non poco all’evangelizzazione e alla santificazione, tuttavia solo in quanto ausiliari al primato dell’annunzio vocale della parola e della gestualità fisica dei Sacramenti, che impiegano la materia del creato per infondere la grazia soprannaturale.
Come si vede la pandemia ha avuto un effetto collaterale utile a manifestare i «pensieri di molti cuori» (Lc 2, 35) in ordine alla verifica della fedeltà o meno al dogma della fede. Che il Signore conceda alla sua Chiesa e soprattutto ai suoi sacerdoti, di trarne le dovute considerazioni e di ritornare umilmente alla professione integra della fede e alla celebrazione degna dei santi Sacramenti.
NB. Le questioni, qui brevemente delineate, possono trovare un maggior approfondimento nella Rivista «Liturgia culmen et fons» 2020, n. 1.
Don Enrico Finotti è nato a Rovereto (TN) nel 1953, dopo il liceo ha seguito gli studi teologici presso il Seminario Diocesano di Trento. Ordinato sacerdote nel 1978, è attualmente parroco a Rovereto. Collabora con l’Ufficio Liturgico Diocesano di Trento nei percorsi di formazione liturgica. È curatore della rivista formativa: Liturgia «culmen et fons». Ha tra l’altro pubblicato: L’anno liturgico. Mistero, grazia e celebrazione. Sussidio per la catechesi e la celebrazione dell’Anno Liturgico (Nuove Arti Grafiche, Trento, 2001) - La centralità della Liturgia nella storia della salvezza. Le sorti dell’uomo e del mondo tra il primato della Liturgia e il suo crollo, (Fede&Cultura, 2010) – La liturgia romana nella sua continuità. Nova et vetera. (Sugarco 2011) – Vaticano II, 50 anni dopo (Fede&Cultura 2012).